L’osteoporosi è una patologia caratterizzata da una riduzione della massa ossea e da un deterioramento del tessuto osseo con conseguente aumento della fragilità scheletrica e del rischio di fratture. L’OMS ha stabilito i seguenti criteri diagnostici:

Normalità: densità minerale ossea non superiore a 1 Deviazione Standard al di sotto della media dei giovani adulti;

Osteopenia: densità minerale ossea compresa tra 1 e 2,5 Deviazioni Standard al di sotto della media dei giovani adulti;

Osteoporosi: densità minerale ossea superiore a 2,5 Deviazioni Standard al sotto della media dei giovani adulti.

Osteoporosi e calcio.

L’osso è composto da collagene, minerali e acqua. Esso è in grado di rimodellarsi continuamente grazie agli osteoclasti (cellule che distruggono l’osso e ne causano il riassorbimento) e agli osteoblasti (cellule che lo sintetizzano e ne provocano l’apposizione). La disponibilità di calcio gioca un ruolo fondamentale in questo processo di rimodellamento.

Molte persone non assumono un adeguato apporto di calcio, il cui fabbisogno in età adulta varia fra 1000 e 1200 mg al giorno, in base alla fascia di età e al genere maschile o femminile.

Il prolungarsi di questo sbilanciamento può portare all’osteopenia e all’osteoporosi, causando una progressiva perdita di massa minerale ossea. L’osso diventa poroso, fragile e più soggetto alle fratture da stress.

Inoltre va ricordato che la vitamina D è il principale ormone che regola l’omeostasi del calcio e il metabolismo della massa minerale ossea. La sua carenza dunque aumenta il rischio di sviluppare osteoporosi e il rischio di fratture ossee.

Osteoporosi ed estrogeni.

Le donne anziane sono molto più soggette all’osteoporosi e ciò coincide con la marcata diminuzione della secrezione di estrogeni che accompagna la menopausa. Il meccanismo esatto secondo il quale gli estrogeni esercitano il loro effetto protettivo sulle ossa è tuttora sconosciuto: tuttavia si ipotizza che essi potrebbero aumentare l’assorbimento di calcio e limitare la sua scomparsa dalle ossa.

Gli uomini di norma producono una significativa quantità di estrogeni che spiega perché siano più immuni all’osteoporosi. Inoltre, una parte di testosterone in circolo si converte in estrogeni e quindi concorre al bilancio positivo del calcio.

La menopausa invece rende le donne più suscettibili all’osteoporosi perché si riduce drammaticamente la produzione di estrogeni da parte delle ovaie. I muscoli, il tessuto adiposo e quello connettivo continuano a produrne, ma in maniera limitata. Una terapia estrogenica integrativa negli anni post menopausa può dare dei benefici, anche se può comportare rischi di cancro all’utero, al seno e ed altri organi. Di conseguenza è un approccio che deve essere attentamente valutato dal medico specialista.

Osteoporosi ed esercizio fisico.

Un esercizio regolare aiuta a diminuire gli effetti dell’invecchiamento sull’apparato scheletrico. Indipendentemente dall’età e dal sesso, le persone che mantengono uno stile di vita attivo mostrano una massa ossea sensibilmente maggiore di quelle che conducono una vita sedentaria. Il beneficio dell’esercizio fisico spesso si accresce durante la settima e ottava decade di vita, infatti una maggiore sedentarietà accompagna la perdita di massa minerale ossea dovuta all’età.

Per quanto riguarda le tipologie di sport che hanno un maggior beneficio, non si dispone di dati univoci. Si osserva un buon incremento di massa in attività quali pallavolo, pallacanestro e ginnastica. Inoltre camminare 1-2 km al giorno produce benefici durante la menopausa. Infine numerosi studi mostrano che uomini e le donne che praticano prove di forza e di potenza arrivano ad avere una massa ossea superiore a quella degli atleti che praticano gare di resistenza. Infatti la densità minerale ossea è in rapporto con i valori di forza muscolare e con la massa magra regionale, cioè con la massa ossea della colonna lombare e della porzione prossimale del femore nei giovani sollevatori di peso di alto livello.

Il meccanismo d’azione riguarda il fatto che la forza muscolare (soprattutto di tipo intermittente) che agisce sulle ossa durante lo sforzo fisico, modifica il metabolismo delle ossa nel punto di stress. La teoria prevalente considera che l’energia meccanica venga trasformata in energia elettrica che va a stimolare gli osteblasti ad accumulare calcio. L’arricchimento dell’osso dipende da due fattori:

entità della forza applicata;

frequenza dell’applicazione della forza.

  • Ne consegue che la prevenzione dell’osteoporosi deve essere eseguita attraverso:

un adeguato intake di calcio, le cui fonti alimentari principali sono latte, yogurt, latticini, frutta secca, acqua ricca in calcio;

un’eventuale terapia estrogenica integrativa negli anni postmenopausa, sotto stretto controllo medico;

un buon livello di attività fisica durante tutte le fasi della vita, preferendo attività in cui si vanno a stimolare potenza e forza muscolare e basandosi su alcune importanti riflessioni. In primo luogo, gli esercizi devono avere una specificità nel determinare localmente effetti osteogenici. Gli esercizi con sovraccarichi devono essere progressivamente crescenti. Gli individui con massa ossea ridotta al minimo sono coloro che possono avere i migliori risultati da questi esercizi. Man mano che si raggiunge il massimo di massa ossea ulteriori miglioramenti richiedono sforzi maggiori. Interrompere l’esercizio ne annulla gli effetti positivi osteogenici. Infine, quando l’età e lo stato di salute non consentono l’esecuzione di esercizi di forza e di potenza, anche il solo mantenersi attivi tramite la deambulazione può dare dei benefici.

FONTI:

Posizione ufficiale dell’American College of Sports Medicine. Med. Sci. Sports Exerc., Vol 29, -no. 5, pp. I-ix, 1997;

Halfon M, Phan O, Teta D. Vitamin D: a review on its effects on muscle strength, the risk of fall, and frailty. BioMed Research International, 2015;

Alimentazione nello sport. W.D. McArdle, F.I. Katch, V.L. Katch, 2018.

Il nostro dispendio energetico giornaliero è la somma di diversi elementi: il metabolismo basale, la termogenesi indotta dalla dieta e l’attività fisica.

 – Il metabolismo basale , che influisce per il 65-75% sul consumo totale, è l’energia che il nostro corpo richiede per mantenere le funzioni fisiologiche vitali. Esso è il fattore determinante nel consumo di calorie e può essere influenzato da diversi fattori: in primo luogo dalla composizione corporea, in quanto la massa magra consuma molto di più rispetto a quella grassa; in secondo luogo dall’essere uomo o donna, poiché a partire dal terzo anno di vita gli uomini hanno una percentuale di massa magra superiore rispetto alle donne; inoltre è condizionato dall’età, dal momento che con il passare degli anni la massa magra diminuisce considerevolmente. Ulteriori elementi che possono modificare il dispendio energetico di base sono: gli stress emotivi, la febbre (un grado in più di temperatura corporea corrisponde ad un aumento del 13% del consumo basale), le malattie ormonali (ipo- ed ipertiroidismo), lo stato nutrizionale (durante il digiuno e l’ipoalimentazione il metabolismo diminuisce); ma anche avvenimenti fisiologici, quali l’accrescimento durante l’infanzia e l’adolescenza, la gravidanza e l’allattamento, che comportano un incremento nel fabbisogno nutrizionale poiché prevedono la creazione di nuovi tessuti.

 Esistono diverse metodiche per la misurazione del dispendio energetico basale, le più utilizzate nella pratica clinica sono la calorimetria indiretta e le equazioni predittive.

 La calorimetria indiretta, che prevede l’utilizzo di macchinari molto costosi e poco diffusi, permette di stabilire l’utilizzo di carboidrati, grassi e proteine, analizzando l’ossigeno e l’anidride carbonica nella nostra respirazione.

 Le equazioni predittive sono costituite da formule ottenute su base statistica; le più utilizzate sono le equazioni di Harris e Benedict che sono state create nel 1919 e che prevedono l’utilizzo di alcune variabili, come il peso, l’altezza, l’età e il sesso per stimare il metabolismo basale.

 – La termogenesi indotta dalla dieta, che rappresenta il 7-13% del dispendio complessivo, costituisce l’energia che dobbiamo utilizzare in risposta all’assunzione degli alimenti, ovvero il lavoro che è necessario per digerirli ed assorbirli. Per calcolarla si aggiunge circa il 10% del metabolismo basale precedentemente ottenuto.

– L’attività fisica, che incide per il 15-30%, a seconda dello stile di vita, è il costo energetico in relazione al tipo, alla frequenza e all’ intensità del movimento. Nel determinare il dispendio che da essa deriva si utilizza una tabella chiamata LAF (livello di attività fisica), che distingue gli stili di vita in: leggero (lavoro sedentario, nessuna attività fisica), moderato ( lavoro sedentario, attività fisica infrequente), pesante (lavoro impegnativo, attività fisica regolare).

Fonte:

Manuale ANDID di valutazione dello stato nutrizionale. G Bedogni, G Cecchetto. Società Editrice Universo. I edizione 2009

L’intervento nutrizionale è il cardine della gestione del diabete, infatti esso entra in gioco in tutte le fasi del percorso terapeutico. La prevenzione, la terapia e il contrasto delle complicanza.

Per quanto riguarda la prevenzione, è ormai ampiamente dimostrato che un intervento di educazione alimentare e terapia nutrizionale, associato a programmi strutturati di attività fisica, è efficace nel prevenire il diabete mellito di tipo 2 in soggetti a rischio, quali persone che soffrono di obesità e portatori di altri stati dismetabolici prediabetici.

Il Diabetes Prevention Programme (DPP) ha dimostrato la possibilità di ridurre in 3 anni l’incidenza del diabete del 58%; è stato inoltre dimostrata la possibilità di ridurre anche a lungo termine il tasso di conversione da pre-diabete a diabete.

La modifica delle abitudini alimentari con un adeguato follow-up specialistico, il calo ponderale del 7-10% e un’attività fisica moderata-intensa, possibilmente strutturata, di almeno 150 minuti a settimana sono pertanto efficaci nella prevenzione del diabete.

Infatti l’insorgenza di diabete mellito di tipo 2 è favorita da uno stato di sovrappeso ed obesità, influenti non solo per il loro grado di gravità, ma soprattutto per distribuzione dell’eccesso di tessuto adiposo. L’obesità addominale, stimata dalla circonferenza della vita, è correlata infatti con alti livelli di insulino-resistenza, infiammazione cronica di basso grado e sindrome metabolica.

Il raggiungimento di un peso ragionevolmente desiderabile rappresenta il primo obiettivo, poiché concorre a contrastare l’insulino-resistenza e a contenere tutte le alterazioni metaboliche correlate, a ridurre la glicemia, specie quella post-prandiale, la trigliceridemia, la pressione arteriosa e la colesterolemia. La riduzione di questi parametri permette di migliorare il profilo di rischio per lo sviluppo di complicanze macro e microangiopatiche tipiche del diabete.

Fonte:

“Prevenzione e terapia dietetica. Una guida pratica” Eugenio Del Toma Il Pensiero Scientifico Editore Seconda edizione febbraio 2020

L’endometriosi prevede in anomalo accumulo di cellule endometriali fuori dall’utero. È una patologia tipica dell’età fertile, anche se in bassa percentuale viene riscontrata anche in pre-pubertà e in post- menopausa.

Come conseguenza si ha un endometrio che non risponde agli stimoli ovarici come quello normale, causando spesso amplificazioni dei sintomi del ciclo mestruale, eccessiva perdita di sangue, dolori pelvici cronici, dolore durante i rapporti sessuali, stanchezza fisica cronica.

In caso di endometriosi, una scelta sbagliata degli alimenti, quando reiterata per lungo tempo, può determinare un netto peggioramento dei sintomi. Ne è un esempio in consumo di soia, trattandosi di una patologia ad estrogeno dominanza.

Si consiglia infatti di eliminare la soia e tutti gli alimenti ad elevato contenuto di fitoestrogeni:

– Isoflavoni: soia, lenticchie, ceci;

– Lignani: semi di lino;

– Cumestani: alfa-alfa e germogli di legumi.

Fonte:

SO Hansen, UB Knudsen – Endometriosis, dysmenorrhoea and diet – Eur J Obestet Gynecol Reprod Biol 2013 Jul; 169(2):162-71

I carboidrati svolgono importanti funzioni relative al metabolismo energetico e all’ottenimento della prestazione durante l’esercizio fisico.

Sorgente energetica.

Durante l’attività fisica i carboidrati forniscono energia al corpo. Questa energia viene prodotta dalla scissione del glucosio presente nel sangue e del glicogeno (= riserve di glucosio) immagazzinato nel fegato e nel muscolo, che permette l’esecuzione del lavoro muscolare e il mantenimento di altre funzioni vitali.
Come l’acqua, anche i carboidrati sono sottoposti a un notevole consumo durante l’attività fisica e l’allenamento intenso. Un apporto glucidico adeguato serve a mantenere le riserve corporee di glucosio su valori appropriati nei soggetti fisicamente attivi.

Risparmiatori delle proteine.

Una corretta assunzione di carboidrati influenza anche il metabolismo degli altri macronutrienti nella produzione di energia. In particolare, un adeguato apporto di carboidrati aiuta a conservare le proteine tissutali. Normalmente le proteine svolgono un ruolo di vitale importanza nei processi di mantenimento, riparazione e accrescimento tissutale e hanno un ruolo trascurabile come fonte energetica.
Tuttavia durante il digiuno o in caso di diete povere di carboidrati o durante l’attività fisica, le riserve glucidiche tendono a diminuire rapidamente. La ridotta disponibilità di glucosio nel sangue e di glicogeno nel fegato e nel muscolo, innescano la sintesi di nuovo glucosio a partire dalle proteine e dalle molecole lipidiche. Questo processo, che prende il nome di gluconeogenesi, provvede ad aumentare i carboidrati a disposizione del nostro organismo, mantenendo dei buoni livelli di glicemia (=glucosio nel sangue) e contrapponendosi al calo delle riserve di glicogeno. Il prezzo da pagare è l’utilizzo del patrimonio proteico del nostro organismo ed in particolare delle proteine presenti nei muscoli, con conseguente riduzione della percentuale di massa magra.

Carburante del Sistema Nervoso Centrale.

Il sistema nervoso centrale usa i carboidrati per svolgere la propria attività. In condizioni normali e nel digiuno a breve termine il cervello utilizza il glucosio presente nel sangue come carburante. Durante l’esercizio fisico prolungato si osserva il progressivo decrescere del valori glicemici, dovuto all’avvenuto consumo del glicogeno epatico, con conseguente utilizzo del glucosio presente nel sangue da parte del muscolo. Si ha così un calo del glucosio nel sangue (ipoglicemia), che ha come principali sintomi debolezza, fame e vertigini. Infine i ridotti livelli di glicemia, oltre a diminuire la prestazione, possono in parte spiegare il fenomeno della “fatica di tipo centrale” spesso associata all’esercizio fisico.

Dunque in generale e a maggior ragione nel caso in cui si pratichi attività sportiva, bisogna diete povere di carboidrati ed è necessario assumerne un adeguato quantitativo. Questo si traduce in una migliore prestazione fisica, un più elevato mantenimento e accrescimento della massa muscolare e una maggiore lucidità durante la pratica sportiva.

FONTE: Alimentazione nello sport. W.D. McArdle, F.I. Katch, V.L. Katch. Casa Editrice Ambrosiana. Ristampa 2020

L’artrite reumatoide è una patologia infiammatoria cronica, anchilosante e progressiva, a carico soprattutto delle articolazioni sinoviali.

Il trattamento dietoterapico attua il protocollo per le patologie autoimmuni: una dieta focalizzata sulla riduzione dell’infiammazione, sul benessere dell’intestino e sul supporto al sistema immunitario.

Nello specifico si punta alla remissione della dolorabilità, che migliora già nel giro di qualche giorno. La dieta prevede:

– l’eliminazione totale di glutine, latticini e cibi con antinutrienti (legumi, frutta secca);

– l’eliminazione nella prima fare anche degli alimenti istamino-correlati e delle spezie.

Trattandosi di un regime dietetico con eliminazione di intere categorie di alimenti deve essere seguito da uno specialista per evitare carenze nutrizionali.

Fonte:

S Khanna, KS Jaiswal, B Gupta – Managing rheumatoid arthtritis with dietary interventions – Fronr Nutr 2017 Nov

Durante la gravidanza il corpo è in continua trasformazione per poter accogliere la nuova vita che sta crescendo dentro di sé.

Si hanno spesso alterazioni del tratto gastrointestinale come bruciore gastrico e stipsi.

La pirosi gastrica in genere si presenta nel terzo trimestre a causa dell’ingombro fetale.

I consigli nutrizionali prevedono:

– l’assunzione di pasti frequenti e poco abbondanti;

– il consumo del pasto deve essere svolto lentamente, masticando in modo adeguato per consentire una prima digestione già a livello orale;

– la riduzione del consumo di cibi che possono rallentare lo svuotamento gastrico, come alimenti particolarmente ricchi di grasso, preparati con cotture elaborate, che presentano un eccesso di fibra;

– la limitazione dell’assunzione di alimenti che possono peggiorare i sintomi, come caffè, pomodoro, agrumi, cibi piccanti …

Un altro evento che si verifica spesso durante la gravidanza è la stipsi, che diventa un fattore di rischio per l’insorgenza di emorroidi, ectasie del plesso emorroidario, proctorragie.

Fra le cause abbiamo l’aumento del progesterone nel I trimestre, l’ingombro fetale nel II e III trimestre, lo scarso apporto di fibra o liquidi o grassi, l’integrazione eccessiva di ferro. Dunque si consiglia:

– l’assunzione di 2L di acqua al giorno;

– l’aumento del consumo di alimenti ricchi di fibra (può essere utile decotto di semi di lino o di semi di chia);

– un corretto apporto di grassi di buona qualità.

L’uso di lassativi è invece controindicato perché non ci sono dati riguardo efficacia e sicurezza di lassativi stimolanti, agenti osmotici e ammorbidenti fecali.

Fonte:

Alimentazione materna e fabbisogno di nutrienti in gravidanza e allattamento – Nutrition Foundation of Itay

La “finestra anabolica” è un intervallo di tempo che si apre al termine della pratica sportiva in cui il muscolo è maggiormente disposto all’acquisizione di nutrienti per il loro utilizzo nei meccanismi di riparazione dei tessuti danneggiati dall’esercizio fisico e nella neosintesi muscolare.

In risposta alla performance sportiva si assiste a una maggiore esposizione dei trasportatori di glucosio sulle membrane cellulari. In caso di esercizio fisico svolto in acuto, cresce il numero di trasportatori traslocati in superficie che restano attivi anche per ore dopo la cessazione dell’esercizio. Mentre l’esercizio fisico svolto in cronico aumenta l’espressione dei trasportatori anche nei periodi successivi al termine dell’esercizio fisico, migliorando così il metabolismo del glucosio ed eventuali condizioni di insulino-resistenza.

La nutrizione post attività fisica può massimizzare gli adattamenti muscolari e il recupero dei tessuti danneggiati tramite:

– il ripristino delle scorte di glicogeno, tramite una pronta reintroduzione di carboidrati a cui associare una quota proteica per avere un effetto sinergico. Questo fenomeno è particolarmente vantaggiosa in caso di competizioni ravvicinate (intervallo fra le prestazioni inferiori alle 8 ore) o in soggetti che debbano praticare diverse sessioni che coinvolgono gli stessi gruppi muscolari nella stessa giornata. Mentre nei casi in cui non ci siano prestazioni così ravvicinate, l’effetto positivo dell’immediato intake è secondario: molti studi mostrano che il muscolo ha sufficiente tempo per recuperare tramite l’assunzione di carboidrati anche nelle ore successive.

– l’interruzione del catabolismo (“smantellamento”) del muscolo scheletrico, tramite il picco insulinemico dato all’assunzione di nutrienti al termine dell’esercizio fisico. Sembra infatti che siano gli alti livelli di insulina nel sangue ad arrestare il catabolismo muscolare, più che l’assunzione in sé delle proteine o degli amminoacidi. Questo effetto viene chiamato “bag-full hypotesis” e ci mostra che fornendo una buona quantità di proteine la neosintesi muscolare aumenta di 3 volte rispetto ai valori basali, per poi arrestarsi una volta calato il picco insulinemico, nonostante la disponibilità di amminoacidi circolanti sia ancora elevata.

Fonte:

jissn.biomedcentral.com/articles/10.1186/1550-2783-10-5

journals.physiology.org/doi/full/10.1152/japplphysiol.00394.2002?rss=1&ampssource=mfr

pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/19164770/ 

La dieta antinfiammatoria è un protocollo nutrizionale applicabile in moltissime condizioni fisio/patologiche. Si basa su 5 pilastri fondamentali:

1- Garantire una corretta gestione dell’insulina.

2- Fornire un buon rapporto fra acidi grassi omega6 e acidi grassi omega3.

3- Ottimizzare l’apporto esterno e la produzione endogena di antiossidanti.

4- Limitare il più possibile gli errori nutrizionali pro-infiammatori.

5- Escludere, ove necessario, alimenti che possano provocare reazioni avverse.

Vediamoli assieme punto per punto.

1- Garantire una corretta gestione dell’insulina. L’insulina è un ormone prodotto dal pancreas quando mangiamo e ha una funzione ipoglicemizzante (abbassa i livelli di zucchero nel sangue). La dieta occidentale aumenta il rischio di sviluppare insulino-resistenza con aumento degli zuccheri nel sangue. Ciò comporta uno stato di infiammazione cronica di basso grado, con aumento di peso, aumento della sintesi endogena di colesterolo LDL e aumento del rischio cardiovascolare. Per questo motivo è fondamentale attuare una corretta ripartizione dei carboidrati e degli altri nutrienti nella giornata, così da garantire una buona secrezione di insulina.

2 – Fornire un buon rapporto fra acidi grassi omega6 e acidi grassi omega3. Un corretto bilanciamento fra queste due tipologie di acidi grassi consente di avere un’azione antinfiammatoria sul nostro organismo. Il rapporto ideale sarebbe omega3:omega6 sarebbe 1:3, mentre nella dieta occidentale è 1:10. Per ripristinare il corretto equilibrio bisognerebbe: evitare grassi industriali ricchi di omega6; scegliere fonti proteiche di alta qualità e non conservate; preferire l’olio extravergine di oliva come fonte di grassi; ridurre la frutta secca se consumata in eccesso; valutare un’integrazione di omega3.

3- Ottimizzare l’apporto esterno e la produzione endogena di antiossidanti. Per quanto riguarda l’apporto esogeno è importante consumare frutta e verdura di stagione per apportare al nostro corpo una buona dose di antiossidanti presenti nei vegetali. Per quanto riguarda la produzione endogena di antiossidanti, bisogna sapere che quando pratichiamo esercizio fisico con regolarità e adeguata intensità, vengono attuati dei meccanismi per la difesa dai radicali liberi tramite il potenziamento dell’attività degli antiossidanti endogeni.

4- Limitare il più possibile gli errori nutrizionali pro-infiammatori. Si tratta dei classici errori fatti spesso in buona fede, provando a mangiare “più sano”. Fra questi annoveriamo: smettere di mangiare pane e pasta; consumare prodotti sugar-free; mangiare alimenti industrialmente senza glutine; usare la margarina al posto del burro; consumare solo surgelati e prodotti ready to eat.

5- Escludere, ove necessario, alimenti che possano provocare reazioni avverse. Questo è un capitolo molto delicato da valutare paziente per paziente in base alle patologie o ai sintomi presenti.

Fonte:

Minihane AM et al – Low-grade inflammation, diet composition and health: current research evidence and its translation – Be J Nutr 2015 Oct 14;114/7):999-1012

Il burro e la margarina non possono essere distinti tra loro per il contenuto calorico, ma per la loro composizione in acidi grassi.

Acidi grassi saturi.

Una recente metanalisi, riportata sul British Medical Journal, ha incrociato i risultati di cinquanta studi osservazionali e ha “assolto” gli acidi grassi saturi dall’accusa di essere associati a un aumentato rischio di morte o a malattie cardiache, ictus e diabete di tipo 2. Mentre al contrario ha dimostrato che gli acidi grassi trans risultano associati a un aumento del 34% di morte per qualsiasi causa, del 28% di morte per malattie coronariche e del 21% per malattie cardiovascolari.

Il burro contiene circa il 62% di acidi grassi saturi, a differenza del 20% della margarina.

Acidi grassi trans.

Durante la produzione della margarina, gli oli insaturi di mais, di soia o di girasole vengono parzialmente idrogenati; questo processo riorganizza la struttura chimica dell’olio polinsaturo originale in quella di un lipide che non è possibile trovare in natura.
Un acido grassi insaturo trans si forma quando uno degli atomi di idrogeno lungo la catena di atomi di carbonio si sposta dalla sua posizione naturale (posizione cis), alla parte opposta del doppio legame (posizione trans).

Nella margarina sono presenti dal 17 al 25% di acidi grassi trans, rispetto all’appena 7% del burro.

Colesterolo.

Poiché la margarina viene fatta con oli vegetali non contiene colesterolo, a differenza del burro che invece ne contiene da 11 a 15 mg per ogni cucchiaino.

L’attuale controversia fra l’utilizzo di margarina o di burro si focalizza sui possibili effetti dannosi per la salute derivanti dalla presenza di acidi grassi trans, a causa della loro azione negativa sulle lipoproteine sieriche.
Alcuni ricercatori ritengono che una dieta ricca di margarina, di prodotti da forno commerciali e di fritture in oli vegetali idrogenati, possa portare ad un incremento dei valori di colesterolo “cattivo” LDL, così come avviene sottoponendosi a diete ricche di acidi grassi saturi. A differenza dei grassi saturi però, gli oli idrogenati fanno anche diminuire la concentrazione del colesterolo “buono” HDL.

Dunque a causa dei rischi per la salute che gli acidi grassi trans comportano, è meglio preferire il burro rispetto alla margarina.

FONTE:

Alimentazione nello sport. W.D. McArdle, F.I. Katch, V.L. Katch;

fondazioneveronesi.it.